LA PRIMA ESPERIENZA DA PRESIDENTE DI COMMISSIONE – Quando ho iniziato la mia carriera di maestro di scuola materna mai avrei pensato di ritrovarmi un giorno a presiedere una commissione d’esame di licenza di scuola media (oggi secondaria di 1° grado). Eppure una volta divenuto Direttore Didattico e successivamente – come si dice oggi – Dirigente Scolastico, un bel giorno mi sono trovato di fronte a questa esperienza. Il debutto, una decina di anni fa, è avvenuto in una bella scuola della prima periferia di Cesena. E durante la sessione degli orali i colleghi della commissione (nella secondaria di 1° grado sono i professori stessi della classe) mi annunciarono il candidato successivo come “il peggiore della scuola”. Poiché amo le sfide, la mia risposta fu immediata: “allora lo interrogo io!”. La presenza del candidato era imponente: altezza più o meno quanto la mia (185 cm), robusto e ben piazzato, calzoncini alle ginocchia e una folta peluria alle gambe. Un ragazzo che, se fosse nato qualche decina di anni prima, alla sua età, lo avremmo trovato a mietere il grano o a spaccar pietre in una miniera. Per me fu spontaneo sapere qualcosa di lui e gli chiesi subito dove abitava. “In una casa di campagna” fu la risposta. Lo incalzai per sapere se attorno alla casa c’era un campo coltivato… e la risposta fu affermativa: una piccola azienda agricola di tipo intensivo, tipica della bassa Romagna. Gli chiesi allora se erano i genitori a coltivare il tutto. La risposta fu inattesa: entrambi i genitori erano operai e “a mandare avanti i campi” erano lui e suo nonno. La conversazione si faceva sempre più interessante. “Ma chi usa il trattore e la motozappa?” La ri-conferma fu precisa: il nonno e lui. Poiché era fine giugno e nella campagna cesenate si coltivano ciliege, albicocche, pesche… e ogni varietà di verdure, gli chiesi se era mai stato al mercato ortofrutticolo (forse il più grande mercato all’ingrosso d’Italia). Rimasi di stucco dalla sua risposta: “ci vado anche domattina, con mio nonno!” Io da piccolo ero stato molte volte con mio padre in quel mercato e così mi venne spontaneo iniziare in quel modo la prova orale. Chiesi al ragazzo di raccontarmi nel dettaglio tutte le operazioni, dal confezionamento della frutta e della verdura a casa, a tutti i passaggi che si sarebbero svolti sotto le tettoie del mercato stesso. Il racconto fu molto preciso e dettagliato: il modo di predisporre frutta e verdura nelle casse, l’arrivo al mercato, l’esposizione delle cassette, la sirena che annunciava l’inizio delle operazioni, i pre-contatti dei mediatori e poi la contrattazione coi compratori ed infine la vendita e la consegna della merce. Il “peggiore della scuola” sfoggiò un linguaggio appropriato, unì le varie questioni facendo i giusti collegamenti, mise a frutto conoscenze e competenze che potremmo definire “storico-tecnico-socio-matematiche”. Insomma, un colloquio che, come vuole la normativa ministeriale, doveva essere multidisciplinare, con la possibilità di verificare le competenze di carattere linguistico/espositive, facendo i dovuti collegamenti. Poi, ricordo bene, ci fu la prova pratica di musica e così ci ascoltammo l’esibizione fatta coi “bonghi”, strumento molto “manuale”, di cui l’allievo era appassionato. Seppi in seguito che quando uscì dall’aula, ai compagni che chiedevano un commento sulla difficoltà dell’esame, se ne uscì con una affermazione lapidaria: “è facilissimo!” Dall’altra parte i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”.
L’IMPORTANZA DI CONOSCERE I PROPRI ALLIEVI – Lo stesso anno mi capitò poi di assistere ad altri due colloqui particolari: un ragazzino figlio di un medico e una ragazzina figlia di contadini, che casualmente avevo avuto come allieva 8 anni prima alla scuola materna. Per il ragazzo la commissione propose, come giudizio finale, un bel “ottimo”. Per la ragazzina la commissione commentò il colloquio definendolo “mediocre”, in sintonia con i tre anni appena trascorsi. Conoscevo bene la situazione di grande isolamento fisico (una casa isolata, in piena montagna e con poche risorse familiari) e culturale in cui viveva la candidata. La famiglia era nata grazie a un matrimonio concordato fra il padre “zitellone” e la madre proveniente da uno sperduto paesino della Basilicata, dove si organizzavano viaggi con autobus “ad hoc”, alla ricerca della possibile moglie. Diedi alla commissione alcune di queste informazioni e sostenni la tesi che dietro il “sufficiente” della ragazzina c’era uno sforzo ben superiore dell’“ottimo” dato al figlio del medico. I commissari non conoscevano minimamente la situazione socio-familiare della loro allieva. .. e si ricredettero sul giudizio dato all’allieva.
Che dire di tutto questo? Forse dovremmo leggere nuovamente “Lettera a una professoressa” che, 45 anni fa, ci ricordava che per insegnare inglese a Gianni bisogna prima di tutto conoscere Gianni.